Adolescence e la paura che possa capitare a noi
"Adolescence", la miniserie televisiva britannica creata da Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini, ha profondamente colpito gli spettatori di Netflix.
In appena quattro episodi, la serie racconta la tragica storia di un tredicenne che uccide una compagna di scuola, affrontando temi attuali come il cyberbullismo e l'influenza dei social media sui giovani.
Fin dai primi istanti, la serie cattura l'attenzione mostrando la polizia irrompere in casa di Jamie, un ragazzo qualunque di una famiglia del ceto medio, sconvolgendo le loro vite irrimediabilmente.
Ispirata dall'incremento dei crimini giovanili in Gran Bretagna, la serie sottolinea come il contesto sociale e l'educazione ricevuta non possano prevenire tragedie simili, suggerendo una possibile connessione all'uso smodato dei social network.
Innovativa dal punto di vista registico, "Adolescence" ha utilizzato un unico piano sequenza per episodio, ad eccezione del secondo, azzerando praticamente il montaggio e conferendo autenticità alla narrazione.
Con un indice di gradimento del 99% su Rotten Tomatoes, la serie è stata acclamata anche per la recitazione intensa dei protagonisti e per l'empatia che suscita negli spettatori, spingendoli a riflettere sulla realtà odierna degli adolescenti e sulle fragilità del contesto in cui vivono.
E' difficile non immedesimarsi nei familiari del giovane Jamie, e viene naturale chiedersi cosa sarebbe successo se ci fossimo trovati al loro posto e come avremmo reagito.
E il fatto che Jamie subisca atti di cyberbullismo dalla compagna e venga preso in giro al punto da essere additato a soli 13 anni come "incel", vale a dire un "celibe involontario", solleva una serie di interrogativi non indifferenti.
La responsabilità di ciò che è successo è della famiglia, della scuola, o della società? Se un ragazzino, con l'appoggio dei compagni, arriva addirittura ad uccidere, che genere di deriva morale e sociale è realmente in atto?
I punti di riferimento sembrano sgretolarsi, segnando forse la fine di un modello educativo istituzionalizzato o la crisi del genitore come figura d'ispirazione. Il padre di Jamie racconta di essere cresciuto con la disciplina dura delle cinghiate e di aver cercato di offrire al figlio un modello migliore e diverso. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, l'inevitabile è accaduto, lasciando un senso di colpa ineludibile.
Colpisce poi profondamente il racconto delle esperienze vissute dalla famiglia dopo l'arresto del figlio. Le domande che si pongono, l'impatto devastante sulla comunità e il fatto di diventare il bersaglio di rancore e pregiudizi. L'isolamento dipinge un quadro di desolazione e sconforto.
La tristezza, il senso di colpa, la rabbia e l'incapacità di affrontare una situazione che sovrasta, creano un senso di solitudine impenetrabile, poiché nessuno vuole comprenderli ma tutti preferiscono giudicare.
Noi, come spettatori della storia, possiamo solo immedesimarci e riconoscere che la brutalità è sempre in agguato. Resta da chiedersi se questa deriva possa essere sanata o se siamo tutti inconsapevolmente destinati a essere schiacciati dal peso delle nostre stesse esistenze.